Diciamocelo chiaramente: è difficile trovare le parole di fronte a una situazione come quella del Palermo. C’era chi sosteneva che ciò che stiamo vedendo in campo si potesse in qualche modo prevedere. Un’estate folle e frenetica, che aveva come preludio un playoff di Serie C altrettanto folle e frenetico, difficilmente avrebbe potuto portare qualcosa di buono. Almeno non a breve termine, visti e considerati tutti i cambiamenti a stretto giro di posta. La verità, dopo otto giornate di campionato e dopo dieci partite ufficiali, è però un’altra. La pazienza sta per esaurirsi, in alcuni casi (come tra i tifosi più agguerriti) si è esaurita. E chi l’ha esaurita non ha tutti i torti.
Mi rifaccio a un paio di passaggi dell’intervista che abbiamo realizzato con il direttore Pietro Lo Monaco (la trovi a questo link). Il primo riguarda il ritardo nella chiusura del passaggio di proprietà al City Football Group, rispetto alla programmazione della stagione attualmente in corso. Una programmazione che è ulteriormente saltata dopo la prima rivoluzione, quella dei responsabili della gestione tecnica del Palermo. L’addio forzato di Silvio Baldini e Renzo Castagnini è arrivato nel peggiore dei modi, sotto tutti i punti di vista. In primis nella forma, visto che entrambi hanno alzato i tacchi in maniera plateale, con tanto di conferenza stampa. Ma quel che è più grave è la modalità di addio: in piena estate, con il “ritiro” (anche qui, di cose ce ne sarebbero da dire) abbondantemente iniziato e dopo un processo di conferme di calciatori più legato alla sfera affettiva che altro.
Sarà anche facile dirlo adesso, al 9 ottobre, che questa convivenza forzata rischiava di portare solo danni al Palermo e persino al City Group. Peccato che chi vi scrive lo avesse già detto e già scritto, a più riprese e in più contesti. Che Baldini e Castagnini fossero indigesti alla nuova proprietà era chiaro ed evidente già dal contrasto emerso dalle dichiarazioni. Chi parlava di Serie A a scopo puramente folkloristico mal si sposava con chi invece ha parlato di “consolidamento” fin dal proprio arrivo in città. E anche gli acquisti portati avanti dal vecchio ds non erano all’altezza delle volontà degli uomini di fiducia di Ferran Soriano. Una spaccatura divenuta ancor più evidente dalla faraonica campagna acquisti dell’era Rinaudo-Zavagno. Sembra facile dire che “potevano pensarci prima”. Ma se ce ne siamo accorti noi, che tiri al pallone ne abbiamo dati pochi e di management sportivo ne capiamo molto meno di loro, evidentemente qualcosa andava fatto.
Il danno ancor più grave è la gestione tecnica. Affidare la squadra a Eugenio Corini, almeno sulla carta, è stata una scelta gradita a tutti. Alla piazza, che ritrovava un vecchio beniamino. A quello che ora si chiama “board”, ovvero alla dirigenza che affidava la squadra a un tecnico giovane ma già capace di vincere e fare ottime cose nella categoria. Poi, però, i nodi vengono al pettine. Va bene la necessità di dare tempo ai tanti nuovi arrivi di adattarsi, ma la richiesta di ulteriore tempo, al 9 ottobre, per comprendere dettami tattici, movimenti e gestione degli spazi sembra quasi offensivo. Gli errori individuali, di reparto e di squadra restano evidenti, all’ottava partita così come alla prima. E questi non sono aspetti che trovano correttivi dando tempo e di conseguenza alibi.
E qui veniamo al secondo passaggio dell’intervista del dottor Lo Monaco, ovvero il discorso legato al “ritiro” del Palermo a Manchester. Non parlerò delle modalità di partenza e altre piccole polemiche che lasciano il tempo che trovano. Parlerò invece di quella che è stata una vera e propria forzatura. L’effetto è lo stesso di un bambino che viene portato a Disneyland dopo aver passato l’infanzia nel parchetto sotto casa. Un vero e proprio effetto placebo che nelle intenzioni voleva cementare il gruppo, ma che in realtà – come ha detto Lo Monaco – “rischia di confondere”. Parliamoci chiaro: sul piano dell’esperienza personale di chi l’ha vissuta, la gita a Manchester è stata fantastica. Sul piano tecnico è stata un disastro. Sul piano della comunicazione ancor di più: tanti lustrini, tante paillettes, ma poca, pochissima sostanza.
In questo contesto va inserito il totale silenzio del board, l’assenza dei vertici al fianco di una squadra che, ancora una volta, viene chiusa in una bolla così come accadeva nel recente passato. Come se il tempo delle passerelle in mezzo alla gente, della richiesta di sostegno attraverso i media come se fosse un mantra, tutto questo sia finito come d’incanto.